CIRCOLARE MINISTERIALE n. 8 Roma, 6 marzo 2013
Prot. 561
Ai Direttori Generali degli Uffici Scolastici Regionali
LORO SEDI
Ai Dirigenti Scolastici
LORO SEDI
Ai Referenti Regionali per la Disabilità / per i DSA
LORO SEDI
Alle Associazioni componenti
l’Osservatorio permanente per l’Integrazione degli alunni con disabilità
LORO SEDI
Alle Associazioni del FONAGS
LORO SEDI
Alle Associazioni del Forum Nazionale degli Studenti
LORO SEDI
Ai Presidenti delle Consulte Provinciali degli Studenti
LORO SEDI
Oggetto: Direttiva Ministeriale 27 dicembre 2012 “Strumenti d’intervento per alunni con bisogni
educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. Indicazioni
operative
Il 27 dicembre scorso è stata firmata dall’On.le Ministro l’unita Direttiva recante Strumenti
d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione
scolastica, che delinea e precisa la strategia inclusiva della scuola italiana al fine di realizzare
appieno il diritto all’apprendimento per tutti gli alunni e gli studenti in situazione di difficoltà. La
Direttiva ridefinisce e completa il tradizionale approccio all’integrazione scolastica, basato sulla
certificazione della disabilità, estendendo il campo di intervento e di responsabilità di tutta la Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Dipartimento per l’Istruzione
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comunità educante all’intera area dei Bisogni Educativi Speciali (BES), comprendente: “svantaggio
sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà
derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture
diverse”.
La Direttiva estende pertanto a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione
dell’apprendimento, richiamandosi espressamente ai principi enunciati dalla Legge 53/2003.
Fermo restando l’obbligo di presentazione delle certificazioni per l’esercizio dei diritti
conseguenti alle situazioni di disabilità e di DSA, è compito doveroso dei Consigli di classe o dei
teams dei docenti nelle scuole primarie indicare in quali altri casi sia opportuna e necessaria
l’adozione di una personalizzazione della didattica ed eventualmente di misure compensative o
dispensative, nella prospettiva di una presa in carico globale ed inclusiva di tutti gli alunni.
Strumento privilegiato è il percorso individualizzato e personalizzato, redatto in un Piano
Didattico Personalizzato (PDP), che ha lo scopo di definire, monitorare e documentare – secondo
un’elaborazione collegiale, corresponsabile e partecipata – le strategie di intervento più idonee e i
criteri di valutazione degli apprendimenti.
In questa nuova e più ampia ottica, il Piano Didattico Personalizzato non può più essere inteso
come mera esplicitazione di strumenti compensativi e dispensativi per gli alunni con DSA; esso è
bensì lo strumento in cui si potranno, ad esempio, includere progettazioni didattico-educative
calibrate sui livelli minimi attesi per le competenze in uscita (di cui moltissimi alunni con BES,
privi di qualsivoglia certificazione diagnostica, abbisognano), strumenti programmatici utili in
maggior misura rispetto a compensazioni o dispense, a carattere squisitamente didatticostrumentale.
La Direttiva ben chiarisce come la presa in carico dei BES debba essere al centro dell’attenzione
e dello sforzo congiunto della scuola e della famiglia.
È necessario che l’attivazione di un percorso individualizzato e personalizzato per un alunno
con Bisogni Educativi Speciali sia deliberata in Consiglio di classe – ovvero, nelle scuole primarie,
da tutti i componenti del team docenti – dando luogo al PDP, firmato dal Dirigente scolastico (o da
un docente da questi specificamente delegato), dai docenti e dalla famiglia. Nel caso in cui sia
necessario trattare dati sensibili per finalità istituzionali, si avrà cura di includere nel PDP apposita
autorizzazione da parte della famiglia.
A titolo esemplificativo, sul sito del MIUR saranno pubblicati alcuni modelli di PDP (Cfr.
http://hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/istruzione/dsa) .
Ove non sia presente certificazione clinica o diagnosi, il Consiglio di classe o il team dei docenti
motiveranno opportunamente, verbalizzandole, le decisioni assunte sulla base di considerazioni
pedagogiche e didattiche; ciò al fine di evitare contenzioso.
Alunni con DSA e disturbi evolutivi specifici
Per quanto riguarda gli alunni in possesso di una diagnosi di DSA rilasciata da una struttura
privata, si raccomanda – nelle more del rilascio della certificazione da parte di strutture sanitarie
pubbliche o accreditate – di adottare preventivamente le misure previste dalla Legge 170/2010,
qualora il Consiglio di classe o il team dei docenti della scuola primaria ravvisino e riscontrino, sulla Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Dipartimento per l’Istruzione
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base di considerazioni psicopedagogiche e didattiche, carenze fondatamente riconducibili al disturbo.
Pervengono infatti numerose segnalazioni relative ad alunni (già sottoposti ad accertamenti
diagnostici nei primi mesi di scuola) che, riuscendo soltanto verso la fine dell’anno scolastico ad
ottenere la certificazione, permangono senza le tutele cui sostanzialmente avrebbero diritto. Si
evidenzia pertanto la necessità di superare e risolvere le difficoltà legate ai tempi di rilascio delle
certificazioni (in molti casi superiori ai sei mesi) adottando comunque un piano didattico
individualizzato e personalizzato nonché tutte le misure che le esigenze educative riscontrate
richiedono. Negli anni terminali di ciascun ciclo scolastico, in ragione degli adempimenti connessi
agli esami di Stato, le certificazioni dovranno essere presentate entro il termine del 31 marzo, come
previsto all’art.1 dell’Accordo sancito in Conferenza Stato-Regioni sulle certificazioni per i DSA
(R.A. n. 140 del 25 luglio 2012).
Area dello svantaggio socioeconomico, linguistico e culturale
Si vuole inoltre richiamare ulteriormente l’attenzione su quell’area dei BES che interessa lo
svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. La Direttiva, a tale proposito, ricorda che “ogni
alunno, con continuità o per determinati periodi, può manifestare Bisogni Educativi Speciali: o per
motivi fisici, biologici, fisiologici o anche per motivi psicologici, sociali, rispetto ai quali è
necessario che le scuole offrano adeguata e personalizzata risposta”. Tali tipologie di BES dovranno
essere individuate sulla base di elementi oggettivi (come ad es. una segnalazione degli operatori dei
servizi sociali), ovvero di ben fondate considerazioni psicopedagogiche e didattiche.
Per questi alunni, e in particolare per coloro che sperimentano difficoltà derivanti dalla non
conoscenza della lingua italiana – per esempio alunni di origine straniera di recente immigrazione
e, in specie, coloro che sono entrati nel nostro sistema scolastico nell’ultimo anno – è parimenti
possibile attivare percorsi individualizzati e personalizzati, oltre che adottare strumenti
compensativi e misure dispensative (ad esempio la dispensa dalla lettura ad alta voce e le attività
ove la lettura è valutata, la scrittura veloce sotto dettatura, ecc.), con le stesse modalità sopra
indicate.
In tal caso si avrà cura di monitorare l’efficacia degli interventi affinché siano messi in atto per
il tempo strettamente necessario. Pertanto, a differenza delle situazioni di disturbo documentate da
diagnosi, le misure dispensative, nei casi sopra richiamati, avranno carattere transitorio e attinente
aspetti didattici, privilegiando dunque le strategie educative e didattiche attraverso percorsi
personalizzati, più che strumenti compensativi e misure dispensative.
In ogni caso, non si potrà accedere alla dispensa dalle prove scritte di lingua straniera se non in
presenza di uno specifico disturbo clinicamente diagnosticato, secondo quanto previsto dall’art. 6
del DM n. 5669 del 12 luglio 2011 e dalle allegate Linee guida.
Si rammenta, infine, che, ai sensi dell’articolo 5 del DPR n. 89/2009, le 2 ore di insegnamento
della seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di primo grado possono essere utilizzate
anche per potenziare l’insegnamento della lingua italiana per gli alunni stranieri non in possesso
delle necessarie conoscenze e competenze nella medesima lingua italiana, nel rispetto
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.
Eventuali disposizioni in merito allo svolgimento degli esami di Stato o delle rilevazioni annuali
degli apprendimenti verranno fornite successivamente. Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Dipartimento per l’Istruzione
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AZIONI A LIVELLO DI SINGOLA ISTITUZIONE SCOLASTICA
Per perseguire tale “politica per l’inclusione”, la Direttiva fornisce indicazioni alle istituzioni
scolastiche, che dovrebbero esplicitarsi, a livello di singole scuole, in alcune azioni strategiche di
seguito sintetizzate.
1. Fermo restando quanto previsto dall’art. 15 comma 2 della L. 104/92, i compiti del Gruppo di
lavoro e di studio d’Istituto (GLHI) si estendono alle problematiche relative a tutti i BES. A
tale scopo i suoi componenti sono integrati da tutte le risorse specifiche e di coordinamento
presenti nella scuola (funzioni strumentali, insegnanti per il sostegno, AEC, assistenti alla
comunicazione, docenti “disciplinari” con esperienza e/o formazione specifica o con compiti di
coordinamento delle classi, genitori ed esperti istituzionali o esterni in regime di
convenzionamento con la scuola), in modo da assicurare all’interno del corpo docente il
trasferimento capillare delle azioni di miglioramento intraprese e un’efficace capacità di
rilevazione e intervento sulle criticità all’interno delle classi.
Tale Gruppo di lavoro assume la denominazione di Gruppo di lavoro per l’inclusione (in sigla
GLI) e svolge le seguenti funzioni:
rilevazione dei BES presenti nella scuola;
raccolta e documentazione degli interventi didattico-educativi posti in essere anche in
funzione di azioni di apprendimento organizzativo in rete tra scuole e/o in rapporto con
azioni strategiche dell’Amministrazione;
focus/confronto sui casi, consulenza e supporto ai colleghi sulle strategie/metodologie di
gestione delle classi;
rilevazione, monitoraggio e valutazione del livello di inclusività della scuola;
raccolta e coordinamento delle proposte formulate dai singoli GLH Operativi sulla base
delle effettive esigenze, ai sensi dell’art. 1, c. 605, lettera b, della legge 296/2006, tradotte
in sede di definizione del PEI come stabilito dall’art. 10 comma 5 della Legge 30 luglio
2010 n. 122 ;
elaborazione di una proposta di Piano Annuale per l’Inclusività riferito a tutti gli
alunni con BES, da redigere al termine di ogni anno scolastico (entro il mese di Giugno).
A tale scopo, il Gruppo procederà ad un’analisi delle criticità e dei punti di forza degli
interventi di inclusione scolastica operati nell’anno appena trascorso e formulerà
un’ipotesi globale di utilizzo funzionale delle risorse specifiche, istituzionali e non, per
incrementare il livello di inclusività generale della scuola nell’anno successivo. Il Piano
sarà quindi discusso e deliberato in Collegio dei Docenti e inviato ai competenti Uffici
degli UUSSRR, nonché ai GLIP e al GLIR, per la richiesta di organico di sostegno, e
alle altre istituzioni territoriali come proposta di assegnazione delle risorse di
competenza, considerando anche gli Accordi di Programma in vigore o altre specifiche
intese sull’integrazione scolastica sottoscritte con gli Enti Locali. A seguito di ciò, gli
Uffici Scolastici regionali assegnano alle singole scuole globalmente le risorse di
sostegno secondo quanto stabilito dall’ art 19 comma 11 della Legge n. 111/2011.
Nel mese di settembre, in relazione alle risorse effettivamente assegnate alla scuola –
ovvero, secondo la previsione dell’art. 50 della L.35/2012, alle reti di scuole -, il Gruppo Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Dipartimento per l’Istruzione
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provvederà ad un adattamento del Piano, sulla base del quale il Dirigente scolastico
procederà all’assegnazione definitiva delle risorse, sempre in termini “funzionali”.
A tal punto i singoli GLHO completeranno la redazione del PEI per gli alunni con
disabilità di ciascuna classe, tenendo conto di quanto indicato nelle Linee guida del 4
agosto 2009.
Inoltre il Gruppo di lavoro per l’inclusione costituisce l’interfaccia della rete dei CTS e
dei servizi sociali e sanitari territoriali per l’implementazione di azioni di sistema
(formazione, tutoraggio, progetti di prevenzione, monitoraggio, ecc.).
Dal punto di vista organizzativo, pur nel rispetto delle autonome scelte delle scuole, si suggerisce
che il gruppo svolga la propria attività riunendosi (per quanto riguarda le risorse specifiche
presenti: insegnanti per il sostegno, AEC, assistenti alla comunicazione, funzioni strumentali,
ecc.), con una cadenza – ove possibile – almeno mensile, nei tempi e nei modi che maggiormente
si confanno alla complessità interna della scuola, ossia in orario di servizio ovvero in orari
aggiuntivi o funzionali (come previsto dagli artt. 28 e 29 del CCNL 2006/2009), potendo far
rientrare la partecipazione alle attività del gruppo nei compensi già pattuiti per i docenti in sede di
contrattazione integrativa di istituto. Il Gruppo, coordinato dal Dirigente scolastico o da un suo
delegato, potrà avvalersi della consulenza e/o supervisione di esperti esterni o interni, anche
attraverso accordi con soggetti istituzionali o del privato sociale e, a seconda delle necessità (ad
esempio, in caso di istituto comprensivo od onnicomprensivo), articolarsi anche per gradi
scolastici.
All’inizio di ogni anno scolastico il Gruppo propone al Collegio dei Docenti una
programmazione degli obiettivi da perseguire e delle attività da porre in essere, che confluisce
nel Piano annuale per l’Inclusività; al termine dell’anno scolastico, il Collegio procede alla
verifica dei risultati raggiunti.
2. Nel P.O.F. della scuola occorre che trovino esplicitazione:
un concreto impegno programmatico per l’inclusione, basato su una attenta lettura del
grado di inclusività della scuola e su obiettivi di miglioramento, da perseguire nel senso
della trasversalità delle prassi di inclusione negli ambiti dell’insegnamento curricolare,
della gestione delle classi, dell’organizzazione dei tempi e degli spazi scolastici, delle
relazioni tra docenti, alunni e famiglie;
criteri e procedure di utilizzo “funzionale” delle risorse professionali presenti,
privilegiando, rispetto a una logica meramente quantitativa di distribuzione degli
organici, una logica “qualitativa”, sulla base di un progetto di inclusione condiviso con
famiglie e servizi sociosanitari che recuperi l’aspetto “pedagogico” del percorso di
apprendimento e l’ambito specifico di competenza della scuola;
l’impegno a partecipare ad azioni di formazione e/o di prevenzione concordate a livello
territoriale.
3. La rilevazione, il monitoraggio e la valutazione del grado di inclusività della scuola sono
finalizzate ad accrescere la consapevolezza dell’intera comunità educante sulla centralità e la
trasversalità dei processi inclusivi in relazione alla qualità dei “risultati” educativi. Da tali azioni
si potranno inoltre desumere indicatori realistici sui quali fondare piani di miglioramento
organizzativo e culturale. A tal fine possono essere adottati sia strumenti strutturati reperibili in Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Dipartimento per l’Istruzione
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rete [come l’”Index per l’inclusione” o il progetto “Quadis” (http://www.quadis.it/jm/)%5D, sia
concordati a livello territoriale. Ci si potrà inoltre avvalere dell’approccio fondato sul modello
ICF dell’OMS e dei relativi concetti di barriere e facilitatori.
AZIONI A LIVELLO TERRITORIALE
La direttiva affida un ruolo fondamentale ai CTS – Centri Territoriali di Supporto, quale
interfaccia fra l’Amministrazione e le scuole, e tra le scuole stesse nonché quale rete di supporto al
processo di integrazione, allo sviluppo professionale dei docenti e alla diffusione delle migliori
pratiche.
Le scuole dovranno poi impegnarsi a perseguire, anche attraverso le reti scolastiche, accordi e
intese con i servizi sociosanitari territoriali (ASL, Servizi sociali e scolastici comunali e provinciali,
enti del privato sociale e del volontariato, Prefetture, ecc.) finalizzati all’integrazione dei servizi “alla
persona” in ambito scolastico, con funzione preventiva e sussidiaria, in ottemperanza a quanto
previsto dalla Legge 328/2000. Tali accordi dovranno prevedere l’esplicitazione di procedure
condivise di accesso ai diversi servizi in relazione agli alunni con BES presenti nella scuola.
Si precisa inoltre che, fermi restando compiti e composizione dei GLIP di cui all’art. 15 commi 1,
3 e 4 della L. 104/92, le loro funzioni si estendono anche a tutti i BES, stante l’indicazione contenuta
nella stessa L. 104/92 secondo cui essi debbono occuparsi dell’integrazione scolastica degli alunni
con disabilità, “nonché per qualsiasi altra attività inerente all’integrazione degli alunni in difficoltà di
apprendimento.”
In ogni caso, i CTS dovranno strettamente collaborare con i GLIP ovvero con i GLIR, la cui
costituzione viene raccomandata nelle Linee guida del 4 agosto 2009.
CTI – Centri Territoriali per l’Inclusione
Il ruolo dei nuovi CTI (Centri Territoriali per l’Inclusione), che potranno essere individuati a
livello di rete territoriale – e che dovranno collegarsi o assorbire i preesistenti Centri Territoriali per
l’integrazione Scolastica degli alunni con disabilità, i Centri di Documentazione per l’integrazione
scolastica degli alunni con disabilità (CDH) ed i Centri Territoriali di Risorse per l’integrazione
scolastica degli alunni con disabilità (CTRH) – risulta strategico anche per creare i presupposti per
l’attuazione dell’art. 50 del DL 9.2.2012, n°5, così come modificato dalla Legge 4.4.2012, n° 35, là
dove si prevede (comma b) la “definizione, per ciascuna istituzione scolastica, di un organico
dell’autonomia, funzionale all’ordinaria attività didattica, educativa, amministrativa, tecnica e
ausiliaria, alle esigenze di sviluppo delle eccellenze, di recupero, di integrazione e sostegno agli
alunni con bisogni educativi speciali e di programmazione dei fabbisogni di personale scolastico,
anche ai fini di una estensione del tempo scuola” e ancora (comma c) la “costituzione […] di reti
territoriali tra istituzioni scolastiche, al fine di conseguire la gestione ottimale delle risorse umane,
strumentali e finanziarie” e ancora (comma d) la “definizione di un organico di rete per le finalità
di cui alla lettera c) nonché per l’integrazione degli alunni con bisogni educativi speciali, la
formazione permanente, la prevenzione dell’abbandono e il contrasto dell’insuccesso scolastico e
formativo e dei fenomeni di bullismo, specialmente per le aree di massima corrispondenza tra
povertà e dispersione scolastica” e infine (comma e) la “costituzione degli organici di cui alle
lettere b) e d) […] sulla base dei posti corrispondenti a fabbisogni con carattere di stabilità per Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Dipartimento per l’Istruzione
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almeno un triennio sulla singola scuola, sulle reti di scuole e sugli ambiti provinciali, anche per i
posti di sostegno, fatte salve le esigenze che ne determinano la rimodulazione annuale.”
Laddove, per ragioni legate alla complessità territoriale, i CTI non potessero essere istituiti o
risultassero poco funzionali, le singole scuole cureranno, attraverso il Gruppo di Lavoro per
l’Inclusione, il contatto con i CTS di riferimento.
Si precisa che il gruppo di docenti operatori del CTS o anche del CTI dovrà essere in possesso
di specifiche competenze, al fine di poter supportare concretamente le scuole e i colleghi con
interventi di consulenza e di formazione mirata. È quindi richiesta una “specializzazione” – nel
senso di una approfondita competenza – nelle tematiche relative ai BES. Per quanto riguarda l’area
della disabilità, si tratterà in primis di docenti specializzati nelle attività di sostegno, ma anche di
docenti curricolari esperti nelle nuove tecnologie per l’inclusione. Per l’area dei disturbi evolutivi
specifici, potranno essere individuati docenti che abbiano frequentato master e/o corsi di
perfezionamento in “Didattica e psicopedagogia per i DSA”, ovvero che abbiano maturato
documentata e comprovata esperienza nel campo, a partire da incarichi assunti nel progetto NTD
(Nuove Tecnologie e Disabilità) attivato sin dal 2006. Anche in questo secondo caso è auspicabile
che il docente operatore dei CTS o dei CTI sia in possesso di adeguate competenze nel campo delle
nuove tecnologie, che potranno essere impiegate anche in progetti per il recupero dello svantaggio
linguistico e culturale ivi compresa l’attivazione di percorsi mirati.
Le istituzioni scolastiche che volessero istituire un CTI possono presentare la propria
candidatura direttamente all’Ufficio Scolastico regionale competente per territorio.
Nel rinviare all’unita Direttiva per una riflessione da portare anche all’interno del Collegio dei
Docenti o loro articolazioni, si invitano le SS.LL. a dare la massima diffusione alla presente
Circolare che viene pubblicata sul sito Internet del Ministero e sulla rete Intranet.
Confidando nella sensibilità e nell’attenzione degli uffici dell’Amministrazione e di tutti coloro
cui la presente circolare è indirizzata, si ringrazia per la collaborazione.
IL CAPO DIPARTIMENTO
f.to Lucrezia Stellacci
Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca
Dipartimento per l’Istruzione
Viale Trastevere, 76/a – 00153 Roma
Tel: 06/58493800-3733-3783 – Fax: 06/58492087 – E-mail: segr.dip.istruzione@istruzione.it
Roma, 27 giugno 2013
Prot. 0001551/2013
Ai Direttori Generali
degli Uffici Scolastici Regionali
LORO SEDI
Al Direttore Generale
per gli Ordinamenti scolastici
SEDE
Al Direttore Generale
per lo Studente
SEDE
Oggetto: Piano Annuale per l’Inclusività – Direttiva 27 dicembre 2012 e C.M. n. 8/2013
Come noto, la C.M. n. 8 del 6 marzo 2013 prevede che il Gruppo di lavoro per l’inclusione di
ciascuna istituzione scolastica elabori una proposta di Piano Annuale per l’Inclusività riferito a
tutti gli alunni con BES, da redigere al termine di ogni anno scolastico. A tale scopo, il Gruppo
procederà ad un’analisi delle criticità e dei punti di forza degli interventi di inclusione scolastica
operati nell’anno appena trascorso […].
Con la presente nota si ritiene opportuno ribadire – come chiarito nel corso della Conferenza di
Servizio tenutasi a Montecatini dal 7 al 9 giugno scorsi – che scopo del Piano annuale per
l’Inclusività (P.A.I.) è fornire un elemento di riflessione nella predisposizione del POF, di cui il
P.A.I. è parte integrante. Il P.A.I., infatti, non va inteso come un ulteriore adempimento
burocratico, bensì come uno strumento che possa contribuire ad accrescere la consapevolezza
dell’intera comunità educante sulla centralità e la trasversalità dei processi inclusivi in relazione
alla qualità dei “risultati” educativi, per creare un contesto educante dove realizzare concretamente
la scuola “per tutti e per ciascuno”. Esso è prima di tutto un atto interno della scuola autonoma,
finalizzato all’auto-conoscenza e alla pianificazione, da sviluppare in un processo responsabile e
attivo di crescita e partecipazione.
In questa ottica di sviluppo e monitoraggio delle capacità inclusive della scuola – nel rispetto
delle prerogative dell’autonomia scolastica – il P.A.I. non va dunque interpretato come un “piano
formativo per gli alunni con bisogni educativi speciali”, ad integrazione del P.O.F. (in questo caso
più che di un “piano per l’inclusione” si tratterebbe di un “piano per gli inclusi”). Il P.A.I. non è
quindi un “documento” per chi ha bisogni educativi speciali, ma è lo strumento per una
progettazione della propria offerta formativa in senso inclusivo, è lo sfondo ed il fondamento sul
quale sviluppare una didattica attenta ai bisogni di ciascuno nel realizzare gli obiettivi comuni, le
linee guida per un concreto impegno programmatico per l’inclusione, basato su una attenta 2
lettura del grado di inclusività della scuola e su obiettivi di miglioramento, da perseguire nel senso
della trasversalità delle prassi di inclusione negli ambiti dell’insegnamento curricolare, della
gestione delle classi, dell’organizzazione dei tempi e degli spazi scolastici, delle relazioni tra
docenti, alunni e famiglie.
Tali complessi e delicati passaggi – proprio affinché l’elaborazione del P.A.I. non si risolva in
un processo compilativo, di natura meramente burocratica anziché pedagogica – richiedono un
percorso partecipato e condiviso da parte di tutte le componenti della comunità educante, facilitando
processi di riflessione e approfondimento, dando modo e tempo per approfondire i temi delle
didattiche inclusive, della gestione della classe, dei percorsi individualizzati, nella prospettiva di un
miglioramento della qualità dell’integrazione scolastica, il cui modello – è bene ricordarlo – è
assunto a punto di riferimento per le politiche inclusive in Europa e non solo.
In tal senso occorrerà – sia a livello di Amministrazione centrale che periferica – proseguire nel
percorso di accompagnamento già avviato, teso a promuovere specifiche azioni di formazione,
informazione e supporto per aiutare le istituzioni scolastiche a cimentarsi in questa nuova sfida,
valorizzando le esperienze delle scuole che già adesso hanno saputo organizzarsi rispettando le
scadenze indicate nella CM 8/13, affinché il P.A.I. possa entrare, in modo regolare, convinto ed
efficace nella prassi organizzativa delle nostre scuole come strumento per promuovere la vera
inclusione.
A tal fine, per questa prima fase di attuazione, tenuto conto del sovrapporsi di vari adempimenti
collegati con la chiusura del corrente anno scolastico, ciascun Ufficio Scolastico Regionale,
nell’ambito della propria discrezionalità e sulla scorta delle esigenze emergenti nel proprio territorio
di competenza, definirà tempi e modi per la restituzione dei P.A.I. da parte delle Istituzioni
scolastiche, tenuto conto che, per le caratteristiche di complessità introdotte dalla Direttiva del 27
dicembre 2012, il prossimo anno scolastico dovrà essere utilizzato per sperimentare e monitorare
procedure, metodologie e pratiche anche organizzative.
Resta fermo che il P.A.I. non sostituisce le richieste di organico di sostegno delle scuole, che
dovranno avvenire secondo le modalità definite da ciascun Ambito Territoriale.
È inoltre intenzione della scrivente procedere a una raccolta delle migliori pratiche in ordine alla
definizione dei Piani in parola. A tal fine si richiede la collaborazione delle SS.LL. affinché
censiscano le proposte di P.A.I. realizzate nel loro territorio e trasmettendo copia delle rilevazioni,
unitamente ad una selezione delle buone pratiche, alla Direzione Generale per lo Studente, agli
indirizzi: dgstudente.direttoregenerale@istruzione.it e raffaele.ciambrone@istruzione.it. Tale
raccolta costituirà uno strumento utile di riflessione e condivisione per le singole realtà scolastiche.
Confidando nella sensibilità e nell’attenzione degli uffici dell’Amministrazione, si resta a
disposizione per qualunque ulteriore chiarimento e si ringrazia per la consueta fattiva
collaborazione.
IL CAPO DIPARTIMENTO
f.to Lucrezia Stellacci
Dunque una fattispecie diversa da quella del BES.
Cosa è accaduto? Che il MIUR con una Direttiva e Circolare, fonti di carattere secondario, che non hanno carattere legislativo ma solo amministrativo avendo come scopo quello disciplinare l’attività degli organi amministrativi dipendenti, onde assicurare unità di indirizzo e di coordinamento nell’attuazione dei loro compiti, hanno totalmente innovato la materia prevedendo funzioni, mansioni, attività, aggiuntive per il personale docente e per le scuole.
Deve essere detto, che dalla lettura incrociata dell’articolo 1 ed articolo 7 della Legge 53/2003, da cui il MIUR ha tratto ispirazione, per sua testuale ammissione, l’unico modo per introdurre il BES nelle scuole era e non poteva che essere o tramite Decreto Legislativo o Decreto Ministeriale od ovviamente Legge, ma non certamente tramite una Direttiva e Circolare. Dunque si è in presenza da un lato ad una chiara illegittimità delle due fonti secondarie di diritto perché innovative perché difettano per eccesso di potere, ma dall’altro, potrebbe emergere anche una nullità delle stesse, poiché vi sarebbe una mera incompetenza assoluta e di difetto di attribuzione oppure una carenza di potere in concreto del MIUR nell’adottare gli atti ivi previsti. Ma la cosa che deve indurre alla riflessione è anche un secondo concetto, questa materia, delicata e fondamentale per la scuola pubblica dell’integrazione, non può essere imposta dall’alto così come è accaduto. E’ necessaria una consultazione con le parti sociali. Tanto detto auspico una revoca del MIUR della Direttiva e della Circolare sul BES, cosa che può essere attuata anche in via di autotutela per i motivi esposti, per una questione di buon senso, per evitare eventuali danni erariali, ma, in particolar modo, per rispettare la dignità della Scuola pubblica e della sua comunità.
Marco Barone
UN GIOCO CARINO PER CLASSE PRIMA E PER BAMBINI CON DIFFICOLTA’ DI LETTURA
Un altro gioco carino sull’apprendimento lettura-scrittura. Mi sapete dire se lo provate e se funziona ?
http://www.maestrantonella.it/DSA/materiali_download/maestra_dice/maestradice.html
Un numero adeguato di posti di sostegno nella scuola pubblica italiana, una continuità didattica degli insegnanti di sostegno nelle scuole, la garanzia dell’effettiva integrazione degli alunni con disabilità nella scuola italiana, dalla scuola dell’infanzia alla superiore. Perchè è attuale il modello d’integrazione proposto dalla legge 517 del 1977 che inseriva nelle classi di tutti gli alunni con disabilità. Poichè i tagli dei fondi ai Comuni ed alle Unità Sanitarie Locali indeboliscono l’azione di supporto alla scuola e l’intervento degli specialisti, ancora di più quindi occorre che si sostenga la buona integrazione, che aiuta sia il bambino o ragazzo con disabilità, sia gli altri bambini o ragazzi che si trovano a frequentare la scuola con lui.
L’edilizia scolastica italiana ha bisogno di molti aiuti, essendo che la maggioranza degli edifici scolastici ha superato i cinquant’anni. Ogni giorno le cronache locali, in giro per il paese, registrano cadute di soffitti e calcinacci, perdite d’acqua, infiltrazioni. A volte è messa in pericolo anche la sicurezza degli studenti, un tema sul quale pure si sono fatte meritorie campagne e migliaia di corsi d’aggiornamento per il personale. Anche il sovraffollamento di molte classi mette in discussione la sicurezza delle scuole. Eppure il contenitore dell’istruzione è importante per dare serenità a chi vi deve vivere ed operare, con tranquillità ed impegno:il rinnovamento e la manutenzione degli spazi pubblici sono un valore per tutti i cittadini, oltre che opportunità per creare e mantenere posti di lavoro, e quindi allontanare la crisi mantenendo accettabile il livello dei consumi. Come si finanziano ? Con la lotta all’ evasione fiscale e la tassazione delle rendite finanziarie
Oggetto: Piano Didattico Personalizzato per alunni con ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività).
Si fa seguito alla circolare n° 4089 del 15 giugno 2010, con la quale sono state fornite puntuali indicazioni riguardo alla integrazione scolastica degli alunni affetti da ADHD ( Disturbo da deficit di attenzione/iperattività ) e, al fine di agevolare ulteriormente gli operatori scolastici che si trovano ad affrontare le problematiche derivanti dalla presenza di tali alunni nelle classi, si richiama l’opportunità che ciascuna istituzione scolastica interessata rediga un Documento Personalizzato per gli alunni affetti da tale disturbo così come previsto per ì soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento ( DSA ).
Come è noto, infatti, la didattica personalizzata, anche sulla base di quanto indicato
nella Legge 53/2003 e nel Decreto legislativo 59/2004, calibra l’offerta didattica attraverso l’impiego di una varietà di metodologie e strategie didattiche, tali da promuovere le potenzialità e il successo formativo in ogni alunno. L’uso dei mediatori didattici, l’attenzione agli stili di apprendimento, la adozione degli interventi sulla base dei livelli raggiunti, si pongono nell’ottica di promuovere un apprendimento significativo , anche con l’introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche, nonché misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini della qualità dei concetti da apprendere.
II documento di cui sopra dovrebbe appunto contenere, oltre ai dati anagrafici dell’alunno, l’indicazione degli strumenti compensativi/dispensativi adottati nelle diverse discipline, al fine di garantire il successo formativo, nonché le modalità di verifica che si intendono adottare. Tale documento dovrà essere inoltre redatto entro il termine massimo del primo trimestre in collaborazione con la famiglia dell’ alunno e i Centri di diagnosi e cura per l’ADHD presenti sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità ovvero la Unità Sanitaria competente per territorio, e successivamente ridiscusso in corso d’anno per rivedere e riformulare il relativo piano didattico.
Si sottolinea infine l’esigenza che tale documentazione venga trasmessa dagli insegnanti al team docente dell’ordine di scuola successivo per garantire la continuità delle valutazioni e delle azioni da adottare,
Le segreterie didattiche sono incaricate di segnalare tempestivamente ai responsabili di classe ogni nuova certificazione /anche in corso d’anno, che documenti eventuale comorbilità.
Si ribadisce inoltre l’importanza, già rilevata con circolare prot.7373 del 17.11.2010 emanata dalla scrivente Direzione Generale, della precoce individuazione del disturbo a partire dalla Scuola dell’Infanzia, in modo da consentire alle istituzioni scolastiche di intervenire in modo adeguato aiutando il bambino a sostenere una buona scolarizzazione.
Si sarà grati alle SS.LL se vorranno curare la diffusione della presente nota circolare presso le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado di competenza.
Il Dirigente
Antonio Cutolo
Un tentativo di chiarificazione del problema potrà essere di aiuto nello sciogliere alcuni dubbi e perplessità. Per aprire, in tal modo, uno spiraglio di luce sull’esistenza di tutti quei genitori, insegnanti, educatori che si trovano faccia a faccia ogni giorno ad affrontare questi disagi. Su una posizione netta e univoca nei confronti di cosa sia il disturbo da deficit di attenzione, è pressoché difficile riconoscersi e collocarsi oggigiorno. Sia per gli esperti sia per i genitori. Questi ultimi sempre più preoccupati e delusi dall’assenza di chiarezza a riguardo della diagnosi e della terapia di intervento.
Di seguito, allora, daremo atto di alcuni dei dati presentati e discussi durante il convegno: Facciamo luce sull’ADHD. Come diagnosticare e gestire il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività nel bambino e nell’adulto, svoltosi a Milano lo scorso 18 aprile. Il nostro obiettivo è fare il punto sulla questione, coscienti di risultare parziali e non sempre esaustivi su una problematica davvero complessa e spesso fraintesa.
Circa il 4% della popolazione pediatrica è affetta dalla
“Sindrome da deficit di attenzione e iperattività“
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ono alcuni di quei bambini che troviamo alle feste dei nostri figli, nei bus o sul treno, nelle scuole o per la strada e che si mostrano continuamente agitati, in continuo movimento, che non riescono a stare mai fermi, che si dimenano continuamente e che i genitori trovano grande difficoltà a tenere “buoni”.
Quando, poi, iniziano a frequentare la scuola sono quei bambini che le insegnanti non vorrebbero mai tenere: si alzano continuamente dal loro posto, danno fastidio ai compagni, non riescono a svolgere i compiti assegnati e finiscono spesso per cambiare banco, classe e talvolta … scuola. Il loro profitto scolastico proprio per la ridotta capacità di concentrazione è spesso scarso o comunque sufficiente e difficile è il loro rapporto con i coetanei, ma anche con gli adulti per la grande impulsività. La loro difficoltà viene percepita dai genitori e dagli insegnanti ma spesso, nel nostro paese, la diagnosi viene completamente misconosciuta.
In realtà questi bambini non hanno nessuna colpa, né tanto meno i loro genitori che invece vengono spesso additati come incapaci a svolgere bene il proprio ruolo di educatori. Se il bambino risponde ad una serie di criteri clinici ben definiti dal mondo scientifico la loro è una vera patologia organica e come tale meritevole di una precisa terapia. Solo con l’ausilio di una giusta terapia i bambini cambieranno radicalmente il loro modo di vivere e tutti, genitori, insegnati, compagni ma soprattutto il bambino, potranno finalmente cogliere la bellezza di una vita “normale”.
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Il bambino iperattivo con deficit di attenzione
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Gennaio 2001
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ADHD e i problemi di condotta ADHD, una sindrome ben definita Determinante genetica La realtà clinica dell’ADHD
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Davide ha 8 anni fa la terza elementare ed è un “terremoto”: basta un non nulla per distrarlo. Il suo comportamentoiperattivo e deconcentrato che manifestava da anni è oggi un problema concreto, ai limiti dell’handicap. Il suo comportamento è pressoché ingestibile.In classe è sempre fuori posto,impulsivo, si atteggia a buffone della classe. Se non è impegnato in lotte e litigi coi compagni si barcamena socialmente come buffone della classe; è deriso, evitato e spesso, nonostante il suo comportamento clownesco, mostra disappunto e tristezza.
Davide sembra apprendere con notevole difficoltà nelle aree verbali, lettura in particolare; ha risultati migliori in matematica, ginnastica, arte e disegno.
Incontra enormi difficoltà nel completare autonomamente un compito; si dimentica spesso di quanto aveva programmato di fare anche se intendeva farlo. Quando inizia un progetto, gioco o incarico, quasi mai lo porta a termine.
Nonostante Davide sia appassionato di sport in cui vorrebbe eccellere ha difficoltà di coordinazione ed è impulsivo e distraibile, così da essere un giocatore poco desiderabile.
Le insegnanti e i genitori, preoccupati e frustrati dal fallimento delle tradizionali misure già messe in atto (richiamare, sgridare, stimolare il bambino), richiedono un intervento inerente al comportamento, apprendimento e umore di Davide.
Questo caso ci da l’idea di cosa sia un “Bambino Iperattivo con Deficit dell’Attenzione”(ADHD), un vero e proprio disturbo neuropsichiatrico caratterizzata da:
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ADHD e i problemi di condotta | ||
I problemi di condotta (il “bambino onnipotente”) rappresentano una delle più frequenti patologie con cui si confronta oggi il Pediatra di famiglia (V. Nuzzo 2001). Essi sono condizionati da complessi fattori psico-sociali ed antropologici che caratterizzano fortemente la condizione del bambino e della famiglia moderna.
E’ importante sottolineare che molti dei disturbi di condotta evidenti nei bambini si associano a “iperattività” cioè a un controllo inadeguato dell’attività motoria.
I motivi ambientali, però, non spiegano tutti i casi di disturbo di condotta con iperattività, dal momento che esiste un gruppo di soggetti che presentano un disturbo organico (cioè una vera e propria malattia) dei meccanismi di controllo dell’attenzione e che secondariamente porta ad un insufficiente controllo dell’attività motoria: il “Disturbo da Deficit di Attenzione” (ADD, Attention Deficit Disorder nella letteratura di lingua inglese, ADS, Aufmerksamkheitsdefizit Störung nella letteratura di lingua tedesca) e meglio conosciuto come “Disturbo di Attenzione con Iperattività” (ADHD nella letteratura anglosassone, DDAI, nella letteratura italiana).
La condizione clinica, quindi, che meglio permette di definire il problema non è l’iperattività, ma ilDisturbo di Concentrazione (DC), meglio definito come “Disturbo dell’Attenzione” .
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ADHD: una sindrome ben definita | ||
La proposta di una sindrome così ben definita si affaccia in Italia dopo la pubblicazione negli Stati Uniti – circa venti anni fa – del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali DSM III, che definiva le caratteristiche cliniche di questo disordine. Le critiche iniziali, però, furono così marcate in Italia, come in altri Paesi, da impedire la diffusione della conoscenza organica dell’ADHD. Basti pensare che nel 1978 la casa editrice Feltrinelli pubblicava la traduzione italiana di un libro di Schrag e Divoky dall’eloquente titolo “Il mito del bambino iperattivo”. Ciò nonostante, il problema era così sentito che in questi ultimi vent’anni numerosi progressi scientifici sono stati fatti, soprattutto in America, sulla comprensione dell’ADHD.
Sebbene il problema sia stato ormai ben identificato e delineato nella letteratura internazionale e, quindi, diagnosticato e trattato da molti pediatri e neuropsichiatri, nel nostro paese esso è stato finora trattato in modo non sufficientemente demarcato (Levi e Penge 1996) dalla cosiddetta“Sindrome da iperattività”, termine generico che si riferisce ad una costellazione sintomatologica etio-patogeneticamente disomogenea, che contiene una serie svariata di disturbi organici o funzionali dei meccanismi di controllo dell’attività, alla cui base, spesso, esistono deviazioni dei meccanismi psico-emotivi, sconfinanti in veri e propri disturbi di personalità.
La conseguente caratterizzazione psico-patologica del problema ha fatto sì che esso restasse lontano non solo da una prospettiva diagnostica e terapeutica adeguata alla sua vera natura ma anche dall’interesse da parte del vasto pubblico di pediatri, insegnanti e genitori che avrebbe, invece, meritato di conoscere un problema di così grande portata sociale, per la sua elevata diffusione nella popolazione infantile.
A partire dagli anni quaranta, gli psichiatri hanno utilizzato molti nomi per definire i bambini caratterizzati da iperattività e da una disattenzione e impulsività fuori della norma. Questi soggetti sono stati considerati affetti da “Minima disfunzione cerebrale”, da “Sindrome infantile da lesione cerebrale”, da “Reazione ipercinetica dell’infanzia”, da “Sindrome da iperattività infantile”e, più recentemente, da “Disturbo dell’attenzione”. I frequenti cambiamenti nelle definizioni rispecchiano l’incertezza che hanno avuto i ricercatori sulle cause del disturbo e perfino su quali fossero esattamente i criteri diagnostici.
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Determinante genetica | ||
Da diversi anni, però, i ricercatori che si occupano di ADHD hanno iniziato a metterne in luce sintomi e cause e hanno trovato che il disturbo può avere una causa genetica. Attualmente, le teorie in proposito sono molto diverse da quelle che andavano per la maggiore anche solo pochi anni fa. I ricercatori stanno chiarendo che l’ADHD non è un disturbo dell’attenzione in sé – come si era a lungo ritenuto – ma nasce da un difetto evolutivo nei circuiti cerebrali che stanno alla base dell’inibizione e dell’autocontrollo. A sua volta, questa mancanza di autocontrollo pregiudica altre importanti funzioni cerebrali necessarie per il mantenimento dell’attenzione, tra cui la capacità di posticipare le gratificazioni immediate in vista di un successivo e maggiore vantaggio. Insomma, questi bambini sono quelli che preferiscono l’uovo oggi alla gallina domani!
I bambini affetti da ADHD, pertanto, non riescono a controllare le loro risposte all’ambiente. E’ come se in questo momento che state leggendo veniste bombardati da tanti altri eventi disturbanti, come la televisione accesa, i vostri figli che gridano fuori la stanza, il telefono che squilla e voi non riusciste ad annullare tutti questi stimoli per focalizzare la vostra attenzione solo su quello che state facendo e che vi interessa tanto. Se non aveste questa capacità di “filtrare” gli stimoli e “prestare attenzione” comincereste a sentirvi agitati perché vi rendereste conto di non riuscire nel vostro intento. Pensate se poi l’attenzione vi venisse richiesta per cose non tanto gradite, come studiare una pagina di storia medioevale, cosa fareste?
Ebbene, questa mancanza di controllo rende i bambini ADHD:
I sintomi centrali dell’ADHD, quindi, sono essenzialmente caratterizzati da un marcato livello di disattenzione e una serie di comportamenti -secondari- che denotano iperattività e impulsività.
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La realtà clinica dell’ADHD | ||
Nella loro realtà clinica questi sintomi si organizzano e si manifestano con una serie di aspetti complessi, nell’ambito dei quali non devono mai essere persi di vista.
Andranno quindi sempre distinti:
1) Sintomi puri (“core symptoms”);
2) Profili sintomatologici specifici (aggressività, disturbo socialità, immaturità, isolamento)
3) Problemi comportamentali associati (di cui il più frequente è quello opposizionale, definito come “Oppositional Defiant Disorder”, ODD)
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ADHD: un problema marginale? | ||
L’ADHD non è affatto un problema raro, anzi appare – nell’ambito dei problemi di condotta – uno dei principali problemi della dimensione infantile moderna, un vero e proprio problema medico-sociale dal momento che è:
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La prevalenza | ||
La prevalenza dell’ADHD varia molto, secondo gli strumenti utilizzati e le realtà socio-antropologiche in cui viene studiata. I soggetti colpiti comunque sono numerosissimi in tutto il mondo. Ovunque adeguatamente ricercato il disturbo in età scolastica mostra una prevalenza intorno al 4%.
L’ADHD è stato identificato dai ricercatori in tutte le nazioni e in tutte le culture studiate. Il disturbo è maggiormente rappresentato nel sesso maschile secondo un rapporto che va da 3 a 9 maschi ogni femmina, a seconda delle ricerche, forse perché i maschi, secondo Barkley, sono geneticamente più soggetti alle malattie del sistema nervoso.
Va rilevato che gli strumenti di screening utilizzati per un primo orientamento diagnostico (DSM-III-R e DSM-IV) sovrastimano il problema, perché lo confondono con il capitolo più ampio dei disturbi di condotta. Nella stima estrema, la prevalenza si ridurrebbe dal 18 al 3.9 %, dopo la valutazione con modelli diagnostici di secondo livello.
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Quanto dura? | ||
L’ADHD non è un problema marginale che si risolve con l’età. Contrariamente, infatti, a quanto si riteneva un tempo la condizione può persistere in età adulta.
La sua storia naturale, infatti, è caratterizzata da persistenza fino all’adolescenza in circa due terzi dei casi e fino all’età adulta in circa un terzo o la metà dei casi. E molti di quelli che non rientrano più nella descrizione clinica dell’ADHD hanno ancora significativi problemi di adattamento nel lavoro, a scuola o in altri contesti sociali.
L’ADHD, infatti, significativamente si associa a disturbi dell’adattamento sociale (personalità antisociale, alcoolismo, criminalità), basso livello accademico ed occupazionale, problemi psichiatrici, fino ad essere considerato uno dei migliori predittori, in età infantile, di cattivo adattamento psicosociale nell’età adulta. Anche se sembra che questo sia patrimonio più delle forme comorbide che delle forme semplici e delle forme con disturbi neuro-psicologici, e sia strettamente dipendete dal contesto evolutivo in cui cresce il bambino con ADHD, è la persistenza stessa dell’ADHD a rappresentare il fattore di peggior prognosi psicosociale, indicando che maggiormente perdurano gli effetti del disturbo più profondo è il loro influsso sullo sviluppo psico-emotivo.
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Forma comorbida, prognosi peggiore | ||
Le forme comorbide sono più correlate ad una serie di profili sintomatologici negativi per quanto riguarda il rapporto con l’ambiente, con veri e propri profili psichiatrici e, quindi, hanno una peggiore prognosi.
Le correlazioni più frequenti sono con:
Tutto questo è dovuto, purtroppo, al fatto che i soggetti affetti da ADHD manifestano nel tempo dei sintomi secondari che si pensa siano il risultato dell’interazione tra le caratteristiche proprie del disturbo con l’ambiente scolastico, sociale, familiare in cui il bambino si trova inserito. Basti pensare che il 58% degli studenti affetti da ADHD ha subito almeno una bocciatura durante la propria carriera scolastica (Cantwell e Satterfield 1978), insuccessi che sono attribuiti al loro deficit cognitivo (Marzocchi et al. 1999), alla loro scarsa motivazione (Van De Meere 1998) o alla comorbilità con i disturbi dell’apprendimento scolastico che possono essere presenti nel 50% dei bambini ADHD (Lambert e Sandoval 1980).
Per conoscere altro sulle comorbilità clicca qui
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Problemi relazionali | ||
Per quanto riguarda i problemi relazionali, i genitori, gli insegnanti e gli stessi coetanei concordano che i bambini con ADHD hanno anche problemi nelle relazioni interpersonali(Pelham e Millich 1984). Vari studi di tipo sociometrico hanno confermato che bambini affetti da deficit di attenzione con o senza iperattività:
Gli inevitabili fallimenti che il bambino ADHD accumulerà nella sua esperienza di vita – sociali, scolastici e familiari – favoriranno, inevitabilmente, lo sviluppo di tratti oppositivi e provocatori che rappresenteranno un aspetto molto problematico dell’ADHD, dal momento che questi tratti saranno i predittori di prognosi infauste: i ragazzi, infatti, che manifestano comportamento da deficit di attenzione/ iperattività e aggressività, saranno più a rischio di altri nello sviluppare comportamenti devianti, nell’incorrere in problemi con la giustizia o nell’uso di alcool e/o sostanze stupefacenti (Taylor et al 1996).
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Capire le cause… | ||
Per poter aiutare i bambini (e gli adulti) colpiti da ADHD, gli psichiatri e gli psicologi devono capire meglio le cause del disturbo. Negli ultimi dieci anni, alcuni studi fondati sulle modernetecniche di elaborazione di immagini hanno indicato quali potrebbero essere le regioni cerebrali il cui cattivo funzionamento spiegherebbe i sintomi dell’ADHD. Stando a questi lavori, sembrerebbero coinvolti la corteccia pre-frontale, parte del cervellettoe almeno due gangli della base, ammassi di cellule nervose situati nelle profondità del cervello.
In uno studio del 1996,Castellanos e Rapoport e i loro colleghi del National Institute of Mental Health, hanno scoperto che la corteccia pre-frontale destra e due gangli basali, il nucleo caudato e il globo pallido, sono significativamente meno estesi del normale nei bambini affetti da ADHD.
Agli inizi del 1998, il gruppo di Castellanos ha trovato che in questi bambini anche il verme del cervelletto è di dimensioni inferiori alla norma.
Le informazioni fornite dalle immagini sono significative perché le aree cerebrali di dimensioni ridotte nei soggetti affetti da ADHD sono proprio quelle che regolano l’attenzione. La corteccia pre-frontale destra, per esempio, è coinvolta nella programmazione del comportamento, nella resistenza alle distrazioni e nello sviluppo della consapevolezza di sé e del tempo. Il nucleo caudato e il globo pallido agiscono interrompendo le risposte automatiche per consentire una decisione più accurata da parte della corteccia e per coordinare gli impulsi che attraverso i neuroni raggiungono le diverse regioni della corteccia. L’esatto ruolo del verme del cervellettonon è stato ancora chiarito, ma indagini recenti fanno ritenere che abbia a che fare con l’essere più o meno motivati.
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Malattia genetica? | ||
Da che cosa deriva la ridotta dimensione di queste strutture cerebrali nei soggetti affetti da ADHD? Molti studi sembrano avvalorare l’ipotesi che il fenomeno possa essere dovuto a una disfunzione di alcuni dei numerosi geni che normalmente sono attivi durante la formazione e lo sviluppo della corteccia pre-frontale e dei gangli basali. La maggior parte dei ricercatori attualmente pensa che l’ADHD sia un disturbo poligenico, ossia determinato dal concorso di più geni.
Le prime indicazioni sull’origine genetica dell’ADHD sono venute da ricerche condotte sulle famiglie dei bambini affetti dal disturbo. Per esempio, si è osservato che i fratelli e le sorelle di bambini con ADHD hanno una probabilità di sviluppare la sindrome da 5 a 7 volte superiore a quella dei bambini appartenenti a famiglie non colpite. E i figli di un genitore affetto da ADHD hanno fino a cinquanta probabilità su cento di sperimentare le stesse difficoltà.
La prova più conclusiva del contributo genetico all’ADHD, però, viene dallostudio sui gemelli. Nel 1992, Jacquelyn I. Gillis, allora all’Università del Colorado, e suoi colleghi scoprirono che il rischio di ADHD in un gemello monozigote di un bambino affetto dal disturbo è tra 11 e 18 volte superiore a quello di un fratello non gemello di un bambino con ADHD; si valuta che tra il 55 e il 92% di gemelli monozigoti di bambini affetti da ADHD finisca con sviluppare la sindrome.
Uno dei più ampi studi sull’ADHD relativo a gemelli fu condotto da Helene Gjone e Jan M. Sundet dell’Università di Oslo, insieme con Jim Stevenson dell’Università di Southampton in Inghilterra. Coinvolgeva 526 gemelli monozigoti, che ereditano esattamente gli stessi geni, e 389 gemelli eterozigoti, la cui somiglianza genetica è analoga a quella di fratelli nati a distanza di anni. Il gruppo di ricerca scoprì che l’ADHD è ereditario quasi all’80%, cioè che circa l’80% delle differenze nell’attenzione, nell’iperattività e nell’impulsività tra persone affette da ADHD e persone sane può essere spiegato da fattori genetici.
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Anche fattori non genetici? | ||
I fattori non genetici che sono stati collegati all’ADHD includono la nascita prematura, l’uso di alcool e tabacco da parte della madre, l’esposizione a elevate quantità di piombo nella prima infanzia e le lesioni cerebrali – soprattutto quelle che coinvolgono la corteccia pre-frontale. Presi insieme, tuttavia, questi fattori possono spiegare dal 20 al 30% dei casi di ADHD tra i maschi, e ancora di meno tra le femmine. Contrariamente alla convinzione popolare, non si è travata alcuna significativa correlazione tra ADHD e metodi educativi o fattori dietetici, come la quantità di zucchero consumata dai bambini.
Nel 1975 Feingold avanzò l’ipotesi e dimostrò, poi, conducendo alcune ricerche di discutibile rigorosità metodologica, che l’iperattività fosse una reazione di tipo tossica e/o allergica ai coloranti e ai conservanti contenuti in numerosi cibi di cui i bambini, durante gli anni della scuola, fanno largo uso e che l’esclusione dalla loro dieta migliorava sensibilmente il loro comportamento. In realtà, i suoi risultati non sono stati confermati e una seria dieta sembra realisticamente difficile da realizzare. Inoltre, poiché molti bambini con allergie non presentano ADHD e molti bambini con ADHD non hanno allergie è necessario essere molto cauti nel trarre facili conclusioni. Potrebbe esistere un sottotipo di soggetti iperattivi che presentano intolleranze alimentari e/o allergie a causa di un irregolare funzionamento del SNC che determina anche una scarsa regolazione del livello di attenzione (Marshall 1989).
L’ambiente non ha importanza decisiva nella genesi del disturbo di concentrazione, come per altri disturbi di condotta a base emotivo-educazionale, tuttavia l’esperienza esistenziale del bambino con Disturbo di Concentrazione, caratterizzato da “insuccessi” e frustrazioni nel campo relazionale, sociale e scolastico, potrà determinare disturbi comportamentali secondari su base psico-emotiva, che spesso accentuano e confondono gli stessi sintomi di iperattività e impulsività con cui il disturbo si presenta. In questo senso, la patogenesi dell’intero sistema di sintomi dell’ADHD si può considerare effetto della confluenza di fattori neuro-biologici e psicosociali, mediata da un disturbo dello sviluppo cognitivo-emotivo che assume un ruolo centrale.
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I geni per la dopamina | ||
Forse determinanti sono quei disturbi che agiscono sul modo con cui il cervello utilizza la dopamina, una sostanza che funziona da neurotrasmettitore, trasportando segnali chimici da una cellula nervosa a un’altra.
La dopamina è secreta dai neuroni in particolari zone del cervello per inibire o modulare l’attività di altri neuroni, in particolare di quelli coinvolti nell’emozione e nel movimento. I disturbi del movimento nel morbo di Parkinson, per esempio, sono provocati dalla morte di neuroni produttori di dopamina in una formazione del cervello, la substantia nigra, che si trova al di sotto dei gangli basali.
Alcuni studi molto convincenti mettono in particolare evidenza il ruolo svolto dai geni che impartiscono le istruzioni per la produzione dei recettori e dei trasmettitori della dopamina: questi geni sono molto attivi nella corteccia pre-frontale e nei gangli basali. I recettori della dopamina si trovano sulla superficie di alcuni neuroni. La dopamina trasporta il suo messaggio a questi neuroni legandosi ai recettori. I trasportatori di dopamina si protendono dai neuroni che secernono il neurotrasmettitore e recuperano la dopamina inutilizzata in modo che possa essere usata di nuovo. Mutazioni nel gene per il recettore della dopamina possono rendere i recettori meno sensibili alla dopamina. Al contrario, mutazioni nel gene per il trasportatore della dopamina possono rendere eccessivamente attivi i trasportatori facendo in modo che essi eliminino la dopamina secreta prima che essa abbia la possibilità di legarsi agli specifici recettori situati su un neurone adiacente.
Nel 1995, Edwin H. Cook e i suoi colleghi dell’Università di Chicago resero noto che i bambini affetti da ADHD avevano una maggiore probabilità di presentare una particolare variante del gene (SLC6A3) per il trasportatore (carrier responsabile del trasporto transneuronale e del re-uptake) della dopamina DAT1. Analogamente, nel 1996, Gerald J. LaHoste dell’Università della California e Irvine e i suoi collaboratori osservarono che nei bambini affetti da ADHD era particolarmente abbondante una variante del gene per i recettori di dopamina D2 e D4, il cui polimorfismo giustificherebbe le varianti cliniche dell’ADHD.
Non sussistendo una sufficiente concentrazione di neurotrasmettitori che garantisca un adeguato trasporto del segnale nervoso, si verifica essenzialmente un’alterazione della funzione di blocco della reazione agli impulsi sensoriali e di selezione di questi in vista della scelta di adeguati handlings. La conseguenza è che il bambino con Disturbo di Concentrazione non sarà in grado di reagire agli stimoli ambientali attraverso un’adeguata scelta e graduazione del repertorio motorio e comportamentale.
In definitiva, si potrebbe affermare che i difetti genetici e di struttura cerebrale osservati nei bambini affetti da ADHD portano ai comportamenti caratteristici del disturbo dell’attenzione associato a iperattività riducendo la capacità di inibire comportamenti inadeguati e di autocontrollo, il che – a giudizio di Barkley – è il deficit centrale nell’ADHD.
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L’autocontrollo | ||
L’autocontrollo – ossia la capacità di inibire o di posporre le immediate risposte motorie (e forse emotive) a un evento – è fondamentale per l’esecuzione di qualsiasi compito. Crescendo, la maggior parte dei bambini matura la capacità di impegnarsi in attività mentali, le funzioni esecutive, che li aiutano a vincere le distrazioni, a ricordare gli obiettivi e a compiere i passi necessari per raggiungerli. Per conseguire un obiettivo nel lavoro o nel gioco per esempio, bisogna essere in grado di ricordare lo scopo (retrospezione), di chiarirsi ciò che serve per raggiungere quell’obiettivo (previsione), di tenere a freno le emozioni e di motivarsi. Se una persona non riesce ad evitare l’interferenza di pensieri e impulsi, nessuna di queste funzioni può essere portata a termine con successo.
Nei primi anni, le funzioni esecutive sono svolte in modo esterno: avviene che i bambini parlino tra sé ad alta voce richiamando alla mente un compito o interrogandosi su un problema. Via via che maturano, i bambini imparano a interiorizzare, a rendere private, le funzioni esecutive, impedendo ad altri di conoscere i loro pensieri.
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Strategie scolastiche che permettono di mantenere l’attenzione e l’attività del bambino ADHD entro limiti accettabili
Si ringrazia la Dr.ssa Pamela Kvilekval che ha curato la traduzione di queste “strategie scolastiche”.
La capacità di apprendimento e un appropriato comportamento scolastico dipendono dall’abilità del bambino ad orientarsi, a mantenere l’attenzione e a mantenere la sua attività entro certi livelli per un determinato periodo di tempo.
ACCORGIMENTI PER CONTENERE UN’ECCESSIVA ATTIVITA’
Non tentare di ridurre l’attività, ma incanalarla ed utilizzarla per accettabili finalità. 1. Dare incarichi che permettano il movimento controllato nella classe per fini non distruttivi. 2. Permettere di stare in piedi di fronte al proprio posto, specialmente in prossimità della fine del compito.
Usare l’attività come un premio. 1. Dare il permesso per una attività (es. dare incarichi come portare un messaggio a qualcuno, pulire la lavagna, mettere a posto i libri della cattedra, sistemare le sedie) quale riconoscimento individuale di un suo successo.
Usare l’attività come risposta alle istruzioni. 1. Usare metodi di insegnamento che incoraggino la risposta attiva (es. parlare, muoversi, organizzarsi, lavorare alla lavagna). 2. Incoraggiare a tenere un diario dove scrivere, colorare ed altro. 3. Insegnare al bambino a fare domande pertinenti.
ACCORGIMENTI PER CONTENERE L’INCAPACITA’ DI ATTENDERE (IMPULSIVITA’ )
Non chiedere al bambino di aspettare, ma dargli un sostituto verbale o una risposta motoria da compiere durante l’attesa, e, quando possibile, nel frattempo incoraggiare il suo fantasticare. 1. Istruire il bambino a continuare una parte più facile del suo compito (o a farne uno sostitutivo) nell’attesa dell’aiuto dell’insegnante. 2. Insegnare al bambino ad affrontare in un test per prime le risposte a lui note. 3. Abituare il bambino a sottolineare o a riscrivere le domande prima di cominciare, oppure a colorarne, con un evidenziatore, le parti più rilevanti. 4. Incoraggiare il bambino a scarabocchiare o a giocare con la gomma, col segnalibro o con la matita mentre aspetta o sta ad ascoltare delle istruzioni. 5. Incoraggiarlo a prendere appunti (anche se solo per poche parole, quelle che lui reputa le più importanti ) .
Incoraggiare il bambino a tirare fuori le sue capacità positive di leadership invece di fraintendere la sua incapacità di attendere come impazienza o prepotenza. 1. Suggerire o rinforzare altri ruoli (es. fare il capofila, distribuire i fogli). 2. Per i bambini che sempre interrompono, insegnare loro come riconoscere le pause nella conversazione e come non perdere il filo del discorso. 3. Indicare al bambino quando serve un maggior autocontrollo per una specifica attività. 4. Insegnare e rinforzare le convenzioni sociali (es. buongiorno, ciao, per favore, grazie) .
ACCORGIMENTI PER EVITARE LA CADUTA DELL’ATTENZIONE DURANTE I COMPITI E NELLE ATTIVITA’
Diminuire la lunghezza del compito. 1. Dividere il compito in parti più piccole che possano essere completate in diversi momenti. 2. Dare due compiti, facendo svolgere prima quello che piace di meno al bambino, e poi il suo preferito. 3. Far fare pochi esercizi alla volta. 4. Nel presentare il compito usare un linguaggio preciso e globale. 5. Parcellizzare il compito da memorizzare invece di presentarlo nella sua globalità.
Rendere i compiti più interessanti. 1. Permettere di lavorare in coppia, in piccoli gruppi. 2. Alternare compiti molto interessanti ad altri meno interessanti. 3. Usare proiettori da parete durante le spiegazioni. 4. Far sedere il bambino vicino alla maestra.
Cercare le novità, specialmente alla fine di un lungo compito. 1. Trasformare in gioco la correzione dei compiti. 2. Trasformare in gioco il ripasso mnemonico.
Non incoraggiare o rinforzare il giudizio di “bella addormentata”, ossia se il bambino guarda fuori dalla finestra o ad un altro bambino non significa perciò che sia disattento. Purché il suo comportamento non sia di disturbo, non pretendere da lui una quiete assoluta che non sempre coincide con una reale attenzione.
ACCORGIMENTI PER EVITARE LA MANCANZA DI PARTECIPAZIONE E L’INCOSTANZA NEL TERMINARE I COMPITI
Andare incontro alle scelte ed agli specifici interessi del bambino nei compiti. 1. Permettere, entro certi limiti, la scelta del compito, dell’argomento, dell’attività. 2. Capire le preferenze del bambino ed usarle come incentivo. 3. Attirare l’attenzione del bambino al compito.
Assicurarsi che i compiti coincidano con le capacità di apprendimento del bambino e con le sue attitudini. 1. Permettere modalità alternative di risposte (es. scritte a macchina, con il computer, registrate a voce). 2. Alternare il livello di difficoltà del compito. 3. Assicurarsi che il mancato svolgimento di un compito non dipenda dalla disorganizzazione.
ACCORGIMENTI PER SUPERARE LA DIFFICOLTA’ AD INIZIARE UN COMPITO
In generale aumentare la strutturazione e l’importanza delle parti più rilevanti di un compito o delle convenzioni sociali. 1. Predisporre l’attenzione del bambino alle richieste orali (es. dandogli anche delle istruzioni scritte, permettendogli di prendere appunti). 2. Dare una struttura precisa ai compiti ed ai test (es. usare fogli a quadretti per la matematica, stabilire degli standard per i compiti, essere il più specifici possibile).
3. Inquadrare la struttura globale del compito (es. le domande fondamentali, il percorso da compiere, le tavole del contenuto). 4. Permettere il lavoro in coppia o in piccoli gruppi purché a bassa voce. 5. Colorare, cerchiare, sottolineare, o riscrivere le istruzioni od i punti più difficili.
ACCORGIMENTI PER COMPLETARE IN TEMPO I COMPITI ASSEGNATI
Incrementare l’organizzazione del lavoro con l’uso di liste, diari, quaderni di appunti, cartelline. 1. Assegnare i compiti al bambino scrivendoli su agendine tascabili. 2. Scrivere i compiti assegnati sulla lavagna ed assicurarsi che li abbia copiati.
Stabilire le consuetudini per quanto riguarda l’uso dei materiali della classe e per il vestiario. 1. Aiutare il bambino ad organizzare, con l’uso di raccoglitori, i compiti già fatti e quelli da svolgere; lo stesso vale per gli appunti presi in classe per mantenerli in ordine cronologico. 2. Spingere i genitori a stabilire in casa consuetudini giornaliere su come riporre i libri ed usare il materiale scolastico. 3. Aiutare il bambino a tenere in ordine il banco organizzandogli lo spazio.
Organizzare il suo ambiente con divisori e materiali colorati. 1. Insegnare al bambino l’abitudine di porsi delle domande prima di iniziare qualcosa o di lasciare un luogo (es. “Ho tutto quello che mi serve ? ” ) 2. Scrivere promemoria da mettergli sul banco, sui libri, sul diario. 3. Incrementare la programmazione sequenziale del pensiero.
Esercitarsi alla programmazione. 1. Programmare le differenti attività (di cosa si ha bisogno, come dividere i compiti in più parti) 2. Prevedere il tempo necessario per ogni singola attività. 3. Insegnare strategie per studiare.
Usare classificazioni, divisioni logiche, ripartizioni. 1. Insegnare l’uso di sistemi di scrittura col computer per riordinare le idee. 2. Insegnare al bambino a prendere note divise in tre colonne quando ascolta le spiegazioni o legge il materiale (punti principali, punti di supporto, domande)
ACCORGIMENTI PER OVVIARE AD UNA SCARSA ABILITA’ MANUALE ALLA SCRITTURA
Ridurre la necessità di scrittura manuale. 1. Non obbligare il bambino a ricopiare del materiale: ciò diminuirà il suo livello di qualità invece di migliorarlo. 2. Permettere al bambino di utilizzare gli appunti dei compagni o dell’insegnante. 3. Accettare compiti battuti a macchina, scritti al computer o registrati.
Non pretendere sempre alti livelli di qualità nella scrittura dei compiti ma solo nelle parti più importanti dove è indispensabile la chiarezza.
1. Colorare, evidenziare, sottolineare quelle lettere che di solito il bambino non è capace di fare in corsivo. 2. Ridurre lo standard per una scrittura accettabile 3. Evidenziare quelle parti del lavoro particolarmente ben fatte.
ACCORGIMENTI PER MIGLIORARE LA SCARSA STIMA DI SÈ
In generale riconoscere le capacità e gli sforzi del bambino. 1. Richiamare l’attenzione sulle capacità del bambino creando, ogni giorno oppure ogni settimana, dei momenti in cui lui o lei possano mostrare i loro talenti. 2. Riconoscere che l’eccesso di attività può anche significare un aumento di energia e di produttività. 3. Riconoscere che essere un capobanda è una qualità da leader. 4. Riconoscere che l’attrazione a nuovi stimoli porta anche alla creatività.
Aumentare la soddisfazione del successo aiutando il bambino a migliorare le sue qualità. 1. Riconoscere l’entusiasmo del bambino ed usarlo per sviluppare le sue qualità. 2. Evidenziare i suoi successi e non i suoi errori.
Coinvolgere il bambino nella soluzione delle sue difficoltà. 1. Fare, insieme al bambino, un elenco dei suoi comportamenti negativi, descrivendo i momenti più difficili e decidere le strategie che possono essere adoperate per evitare guai. Questo colloquio va tenuto privatamente, con calma e con l’atteggiamento di chi cerca di risolvere dei problemi, non per colpevolizzare il bambino. 2. Fare “giochi di ruolo” con il bambino in queste situazioni per praticare comportamenti alternativi. 3. Iniziare con un solo comportamento a cambiare, tenendo una scheda apposita per registrare successi ed insuccessi. Tener conto alla fine di ogni giorno di quante volte il bambino è riuscito ad adoperare una strategia positiva. 4. Dopo il primo miglioramento, aggiungere un altro comportamento da cambiare e decidere assieme al bambino la strategia (o le strategie) che devono essere adoperate.